Si tratta dell’ultima riedizione del mio primissimo quadro: l’Ulisse dantesco (1968).
Dante scrive: Dopo un anno a Gaeta (prima che Enea le desse quel nome) «né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né ‘l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta» poterono fermare Ulisse dalla sua sete di conoscenza, dall’ardore di conoscere i vizi umani e le virtù. Partì così per mare aperto invece di tornare a casa, con una barca e quella «compagnia picciola» di sempre. Navigò lungo i lidi europei (fino alla Spagna) e africani (fino al Marocco) del Mediterraneo occidentale, comprese le isole quali la Sardegna e le altre. Lui e i suoi compagni erano già anziani quando arrivarono a quella «foce stretta» dove Ercole segnò il confine da non superare, lo Stretto di Gibilterra. Ulisse passò Siviglia a destra e Ceuta a sinistra arrivando davanti allo stretto; per convincere i suoi all’impresa mai arrischiata pronunciò la famosa «orazion picciola»:
« “O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”. »
(vv. 112-120)